Pink Power - Festival Psicologia 2016
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Pink Power

Postato da Giuseppe Gioseffi on aprile 14, 2016
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Tuscia Opera Festival

“Continuerò ad azzardare, a cambiare, ad aprire la mente e gli occhi, rifiutando di lasciarmi incasellare e stereotipare. Ciò che conta è liberare il proprio io: lasciare che trovi le sue dimensioni, che non abbia vincoli” (Virginia Woolf, Diario di una scrittrice)

Viviana Langher

Leggendo, a quindici anni, e d’un fiato, “I fratelli Karamazov” rimasi incantata dall’incontro tra Katerina Ivanovna e Gruše’nka, due donne monumetali, due giovanette di poco più di vent’anni, magnifiche e contrapposte.

Katerina ama Mitja, che pure aveva voluto oltraggiarla, ma che, con la limpidezza e la tenacia del suo amore, ella aveva legato a sé. Katerina è risoluta a restargli accanto anche nell’abisso nel quale egli si getta. Ferma, salda, nobile, Katerina non esita a confrontarsi con la sua rivale, ad amarla anche. Sopporta il dolore, soccorre, ingoia il suo orgoglio, comprende (cioè prende dentro di sé), perdona immensamente. Ed è così che all’altro si toglie anche lo sbaglio, il tradimento, la turpitudine come strumento di sottrazione dal rapporto, di sconnessione delle regole, di sconferma dei presupposti. Katerina c’è, non se ne va, accoglie, o forse ingloba, qualunque tentativo di sconnessione, e tutto rimane fermo, stabile, piantato bene per terra, perché è lei a volerlo. Katerina esercita nella cura del rapporto il suo più grande strumento di potere. Katerina vuole Mitja per sé, cosa sua, suo possesso, lo vuole legato a sé – e più Mitja si divincola, più Katerina, perdonandolo, lo tiene stretto – o vuole farlo. Mitja che di lei vuole approfittare e che invece, sovrastato dalla nobiltà dei sentimenti di lei, finisce per cederle. Finisce nelle spire dell’amore accogliente di Katerina.

Di tutt’altra pasta è Agrafena Aleksandrovna, Gruše’nka. Lei l’oltraggio l’ha subito davvero, da ragazzina: sedotta e abbandonata da un ufficiale che decide di sposarsi con un’altra, Gruše’nka, orfana e senza nessuno al mondo, trova riparo presso un anziano che la prende sotto la sua protezione e le insegna a far affari e ad accumular denari. E Gruše’nka attua la sua perfida vendetta sugli uomini tutti, non solo accumulando i loro beni, ma soprattutto, divenuta una “vera bellezza russa”, li seduce e poi si nega, sempre, a qualunque loro profferta amorosa. Il potere del diniego di sé.

Katerina e Gruše’nka si incontrano, ed è uno scontro tra titani: la prima, che fa del perdono, dell’amore sopra ogni altra cosa la sua arma più forte, soccombe alla seconda che sa tradire, sa negarsi, sa disprezzare senza che le tremi il cuore. Gruše’nka è più potente.

Ma ha un punto debole: l’amore per l’uomo che l’abbandonò. A nulla è valsa l’asprezza conquistata sulla pelle degli altri uomini, l’accumulo delle loro ricchezze, il disprezzo delle loro debolezze, perché quando l’ufficiale torna e “fa un fischio” lei, “come un cagnolino”, abbandona tutto per tornare da lui, non prima di aver evocato, sconsolata, sé stessa che di notte non dorme e piange ancora per l’abbandono subìto. La trama dostoevskijana si snoda poi in altre e ben più complesse direzioni, e le due figure femminili daranno luogo ad altre rivelazioni ancora, ma noi ci fermiamo qui: due donne e il loro potere, opposto, speculare, il sì e il no. Entrambe destinate a perderlo, in un modo o nell’altro.

Il potere delle donne non è certo un tema insolito. Di norma, si pensa alle donne come ad una categoria, o una quota, meglio se rosa, cui il potere è negato, o è una conquista precaria relativamente recente, e comunque da ghermire in una battaglia impari con gli altri, siano uomini o altre donne.

A mio avviso, invece, ciò che manca alle donne è la libertà, cioè la possibilità di avere uno spazio mentale sufficientemente comodo da contenere alternative di scelta equiprobabili, che vuol dire poter scegliere flessibilmente, “dopo aver valutato la convenienza allo scopo e alle circostanze” (recita il vocabolario Treccani), non sentirsi costretti in un ordine di priorità rigido e sempre uguale a sé stesso.

Si dice, delle donne, che sappiano pendersi cura dei rapporti, e che, quando applicano questo loro talento nelle organizzazioni produttive, ciò fa funzionare le cose molto meglio. Questo è uno stereotipo, ed in taluni casi ciò può essere addirittura il risultato di un processo difensivo collettivo finalizzato a distorcere la realtà nel suo contrario. Le donne spesso soccombono alle relazioni, sono preoccupate (letteralmente versano in un continuo stato di inquietudine e vigilanza, ma anche in senso proprio e raro “se ne occupano in precedenza”, anticipano, cercano di prevedere) dalla qualità dei rapporti in cui sono coinvolte, siano essi personali, siano essi lavorativi. Sono preoccupate dalla manutenzione dei rapporti, ne sezionano i dettagli come se fossero nate con microscopio incorporato, ne analizzano ogni sfaccettatura, sia che la vedano, sia che la immaginino – e però pensano che sia vera. Reale. Concreta.

Tutto ciò spesso interferisce con i rapporti orientati a dimensioni produttive, li diverge dall’obiettivo. Loro vogliono sentirsi bene, nei rapporti, tollerano poco il conflitto, se lo subiscono; ma si esaltano nella capacità di sostenere un conflitto, se sono loro a provocarlo, come dimostrazione della volontà – e capacità – di potenza.

Però poi credono alla idealizzazione compiacente che di loro fanno gli uomini (“le donne sono più intelligenti”, “le donne sono più forti”, ”le donne hanno il pensiero più complesso”, “le donne sono più creative”), i quali, al contrario, della libertà godono molto di più, anche se raramente in famiglia – quello è il territorio delle donne, del potere femminile, del pink power, della spesa del denaro patrimoniale per il bene dei figli – con criteri materni.

Si dice che le ragazze siano più brave dei ragazzi negli studi universitari. A guardare i dati, quelli ufficiali disponibili, non sembra che le cose stiano proprio così. Alla fine si equivalgono, ragazzi e ragazze. La differenza cruciale si vede però subito dopo la laurea. I ragazzi guadagnano, da subito, molto di più. Attenti a non cadere nel tranello di interpretare questo dato secondo il pensiero comune dominante: ci saranno, di certo, casi in cui a parità di funzione e di produttività i ragazzi vengano retribuiti di più. Ma voglio porre delle domande, non tanto ingenue, perché derivano da una analisi attenta dei dati su laureati e laureate in psicologia. Non sarà che ragazzi e ragazze fanno lavori diversi in condizioni diverse? Che i ragazzi sono disposti a cambiare città e le ragazze preferiscono di no? Che i ragazzi si impegnano full time e le ragazze si impegnano part time? Che i ragazzi puntano alle aziende e ad altre carriere direttamente legate alla remunerazione, e che le ragazze si dedicano a funzioni di cura, in contesti dedicati all’educazione, all’assistenza ed ai servizi agli altri – perché si fanno forti della loro atavica capacità di prendersi cura dei rapporti? Che i ragazzi non si accorgono della qualità dei rapporti e sono stolidi e semplici, e fanno quello che pensano sia utile fare, mentre le ragazze, più sensibili ed attente, si chiudono in sé stesse o entrano in conflitto diretto se le relazioni non sono armoniose ed accoglienti? Che i ragazzi pensano prima a sistemarsi e poi a fare famiglia, mentre le ragazze sentono l’orologio biologico che fa tic tac e fanno famiglia mentre muovono i primi passi in carriera (perché il potere sui rapporti almeno lo conquistano e lo mettono da parte, non si sa mai..)?

Non sarà, alla fine, che il potere che le donne hanno sui rapporti, e sul possesso dei rapporti, è un potere forte, nelle società costituite sulla famiglia, e nelle quali la cultura familistica è dominante, quanto miope, che al momento della mezza età crudele rivela l’effimero di quel potere sulla prole e attraverso i figli, sempre meno posseduti, sempre più liberi, sempre più lontani – o rivela la caducità dello splendore fisico, che volge le spalle e s’avvia in direzione contraria con andatura bizzarra e canzonatoria? Non sarà, alla fine, che questa brama di potere, piccolo e circoscritto al microcosmo familiare, sia esso il principale ostacolo alla conquista della libertà?

Cedere quote del potere che si ha sulla prole vuol dire guadagnare libertà. Ciò non significa non fare più figli, ma lasciare, senza angosce di perdita e sensi di colpa, che di essi si occupino anche altri, come sanno fare da secoli le scandinave, o le donne del Mozambico, Paese che, pur essendo in via sviluppo, è al quinto posto al mondo per occupazione delle donne nei posti di potere politico ed economico. Le quote rosa non sono libertà, per nessuno: per chi sceglie e per chi è scelto. È una forzatura che può avere senso solo per salvaguardare specie in via di estinzione.

La liberazione sessuale, che ha fatto scoprire alle donne le gioie del sesso promiscuo, ha di fatto lasciata vuota una voragine che si è aperta nel momento stesso in cui alla rigidità del tradizionale ruolo femminile nella famiglia si è sostituita la ludica attitudine ad implicarsi, sia pure temporaneamente, in rapporti piacevoli, ma non, con altrettanta potenza, in relazioni orientate al raggiungimento di obiettivi produttivi. E stiamo sempre lì. La fascinazione del legame, in qualunque sua forma, pure estemporanea. Pure una botta e via.

Le mie studentesse, interpellate, mi dicono che hanno scelto di studiare psicologia perché ciò le appassiona. È la libertà di fare ciò che piace loro, ma è segnale di una debole capacità di autodeterminarsi, basata primariamente su un criterio interno (ciò che le appassiona) che può non corrispondere, disgraziatamente, a ciò di cui c’è bisogno in giro, facendo così naufragare progetti e piegarle, alla fine, alla conquista del potere nelle relazioni personali, che vuol dire, di fatto, familiari.

Gruše’nka ha più potere di Katerina, ma non è libera di andare a conquistare il mondo. Perché quel legame spezzato, quando era giovinetta, non solo è il genuino fattore di rivalsa che la spinge a conquistare il potere, ma è la sua nemesi, che la spinge ad abbandonare tutto. Ma era il 1879. E Dostoevskji aveva in serbo per lei, come per tutte le tragiche figure della sua potente narrazione, la redenzione e la salvezza.